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Una visita al Tempio d'oro di Amritsar



Siamo arrivati ad Amritsar, il cui nome significa “lago del nettare dell’immortalità”, la città del Punjab, nord India, costruita nel 1577 dal quarto Guru dei sikh, Ram Das (1534-1581), su un terreno concesso da Akbar, il grande imperatore moghul (1543-1605) che, in occasione della visita al terzo Guru sikh, Amar Das, assegnò un jagir (la terra e la riscossione delle imposte di molti villaggi dei dintorni) alla figlia del Guru, Bhani, come dono per il suo matrimonio con Bhai Jetha che, in seguito, divenne il quarto Guru sikh, Guru Ram Das. Nello spazio antistante l’ingresso al tempio d’Oro, c’è un via vai di pellegrini che lasciano le loro scarpe per entrare nel luogo più sacro del Sikkismo. Accediamo da uno dei quattro ingressi posti ai punti cardinali che rappresentano le quattro direzioni e l'apertura del Sikhismo verso tutti i popoli e le religioni, ricordandomi della tenda di Abramo come descritta nel Vecchio Testamento, cioè aperta su tutti i lati per accogliere i viaggiatori che arrivavano da tutte le direzioni. Poi, superiamo il muro di cinta e veniamo subito assorbiti da uno scenario che esala una grande sensazione di pace e tranquillità. Come vuole la tradizione, percorriamo in senso orario il perimetro (parikrama) che circonda il grande bacino (sarovar) dove i devoti operano le loro abluzioni immergendosi nell’acqua dell’immortalità (amrit), bevendo simbolicamente la filosofia del sikkismo. Al centro della grande piscina, l’Harmadir Sahib, il “tempio di Dio”, con i suoi caratteri architettonici induisti e musulmani, galleggia leggero e sublime. I turbanti di questo popolo fiero dei loro Guru si accendono sul bianco cangiante del muro perimetrale e degli splendidi pavimenti variamente disegnati con effetti marmorei. Ogni tanto ci fermiamo davanti a qualche piccolo santuario dedicato a martiri o a grandi maestri di questa religione che è anche una buona fisolofia di vita. A ben guardare, non sono solo i migliaia di sikh a giungere sin qui ma il tempio è frequentato anche da devoti di altre religioni, essendo aperto a tutti, in onore di quel messaggio di tolleranza che è una delle fondamenta di questa dottrina che supera anche il classico sistema castale indiano. Unico obbligo per chi desidera visitarlo è non fumare, non bere alcolici, non mangiare carne, non usare droghe, togliersi le scarpe e coprirsi il capo. Giunti alla passerella che conduce al cuore del tempio, ci accodiamo alla fila di devoti e, in attesa di entrare, ammiro estasiata la grande cupola a forma di loro rovesciato che lentamente si illumina con l’avanzare del sole nascente. Il tempio, a due piani, fu progettato dal quinto guru Arjun Dev (1581-1606) e costruito alla fine del XVI° secolo, distrutto nel 1761 e ricostruito nel 1764. Dal 1803 la sua cupola è rivestita di lamine in oro per un peso complessivo di 300 chili. All’interno è custodito, sotto una stoffa colorata, l'Adi Granth, la sacra scrittura del Sikhismo (iniziata da Arjun Dev), nonché l’ultimo ed eterno guru e maestro supremo del Sikkismo, chiamato anche Guru Grant Sahib. Fu infatti il decimo guru Govind Singh a proclamare che da lì in avanti sarebbe stato questo testo sacro, e non un guru in carne ed ossa, a diventare il maestro supremo ed eterno del Sikkismo. Ogni sera, alle ore10, con una processione rituale, il libro viene portato in un altro edificio, proprio lì accanto, l’Akal Takht, dove rimane fino alle ore 4 del mattino per poi essere ricondotto sul trono dell’Harmandir. L’Akal Takht (il “trono di colui senza tempo”), voluto dal sesto Guru, Guru Har Gobind, rappresenta la sede del potere temporale di Dio mentre l' Harmandir Sahib ne è considerata la dimora spirituale. Ci rechiamo poi in visita alla Guru Ka Langar, la sala da pranzo dove i sewa, gli instancabili volontari del tempio, offrono gratuitamente cibo a tutti i pellegrini di qualsiasi religione o casta. Si viene quindi invitati a sedersi sul lungo tappeto a terra, forniti di un piatto di alluminio che presto verrà riempito con una squisita pietanza fatta di riso, lenticchie (dal),verdure, il tutto accompagnato da un fragrante chapatti. E’ incredibile la laboriosità di questi volontari e il sistema organizzativo che la sorregge perfettamente: centinaia di piatti, bicchieri, posate scorrono di mano in mano per essere ritirate, lavate, asciugate e pronte per un nuovo giro. C’è anche un vano dove le donne, e anche le macchine, preparano il chapatti, con le loro mani che vanno e vengono su una spianatoia per stendere l’impasto prima di essere cotte sopra una piastra enorme posta sopra un grande fuoco. In un altro vano la preparazione dei pasti, la cottura dei cibi dentro una enorme pentola. I volontari, davvero tantissimi, arrivano alla mattina presto per preparare e servire tutto questo a chi semplicemente lo richieda. Tutto si presenta particolarmente pulito, veloce ed organizzato. Non avevo mai visto nulla di simile. Lasciamo questo luogo, un po’ più ricchi dentro.

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